La storia di Salva

6 Dicembre 2019 6 di Roberto Pugliese

Mio marito Salva era un uomo buono.

È la prima cosa che mi viene da scrivere di lui.

Era un uomo intelligente e sensibile.

Tutto è iniziato nella primavera/estate del 2011. All’improvviso è diventato irascibile e spesso irragionevole, aveva delle crisi di rabbia improvvise e si erano intensificati gli attacchi di mal di testa di cui però soffriva da sempre, per cui sono stati sottovalutati.

Durante l’estate eravamo in viaggio negli Stati Uniti con mio figlio ed un gruppo di amici, che prevedeva lunghi tragitti giornalieri in macchina.

Lui si ostinava a guidare, pur tormentato da questi forti mal di testa, che si attutivano un po’ con gli antidolorifici, ma poi tornavano, insistenti, martellanti. Mi sono accorta che a volte alla guida sembrava disorientato, aveva difficoltà mai notate prima, ma se gli proponevo di dargli il cambio si arrabbiava, mi aggrediva verbalmente come mai era successo in precedenza.

L’ultima sera, a Las Vegas, si è perso nell’albergo, nel senso che non riusciva più a trovare la nostra stanza. 

Il viaggio aereo di ritorno è stato per lui un inferno. Lo ha fatto avvolto in una coperta con questo mal di testa che non lo abbandonava.

Arrivati a Milano ha acconsentito a farmi guidare per tornare nella nostra città, Genova.

Appena atterrati, la stessa mattina, siamo andati dal medico. Semplice cervicale, è stata la diagnosi. Un po’ di Muscoril e Novalgina, passerà.

La notte è caduto in uno stato di assoluto disorientamento spazio temporale e mi diceva di impazzire dal male.

Ho chiamato l’ambulanza e alle due di notte una dottoressa del PS mi ha detto con tono scocciato che non si va al pronto soccorso per “un semplice mal di testa”. Mi sono arrabbiata, ho preteso un’immediata visita neurologica, che è stata eseguita da un giovane medico.

Sono stata chiamata dopo una mezzora, il dottore diceva che aveva notato “una sfumatura sospetta” in una prova effettuata e che voleva ricoverarlo per prudenza, per eseguire una tac la mattina dopo.

Sono tornata a casa in taxi con un senso di angoscia opprimente, quel pensiero che ci fosse qualcosa di serio che stavo scacciando da qualche mese si stava insinuando insistente.

La mattina dopo la doccia fredda. A seguito di TAC e successiva risonanza urgente ho sentito per la prima volta pronunciare un nome mai sentito: glioblastoma nel lobo occipitale destro, diametro 6 cm.

Non sapevo cosa fosse, mi hanno detto è un tumore aggressivo, suo marito è grave, non è trasportabile, può entrare in coma da un momento all’altro, ma è in una zona del cervello operabile.

Il mondo gira, il mondo crolla, mi sento mancare.

Sostenuta da un caro amico primario in quell’ospedale, chiamiamo il neurochirurgo, che è in ferie.

Un suo assistente riceve me e il fratello di Salva, senza dire altro ci mostra le immagini della risonanza e mi dice: “guardi, questo è il cervello di suo marito. Sei mesi di vita se non interveniamo, 10-12 con intervento seguito da chemio e radio”. Lo vedo, il cervello di mio marito, occupato in gran parte da una cosa che sembra un ragno. E svengo.

Torno poi in camera da Salva, che nel frattempo, “bombardato” di cortisone in vena, si sentiva meglio.

Senza mezzi termini mi dice “ho il cancro, vero?”. Lucido e determinato, come sempre. Mi dice “lotterò, non piangere, ce la faremo. Ma promettimi di non mentirmi mai, voglio essere informato su tutto”.

Mi mancano le parole, mi manca il coraggio, mi manca tutto. L’unica cosa che riesco a dire è che possono operarlo, che ce la farà.

Parenti e amici accorrono in ospedale, il primario torna due giorni dopo dalle ferie e ci appare come un Dio. È molto sicuro di sé, anche se a me dice chiaramente che l’intervento in sé è praticamente “di routine”, ma che non c’è speranza di sopravvivenza a lungo termine.

Durante l’operazione mi chiama il mio amico medico, che ha potuto entrare in sala operatoria. Mi aggiorna ogni mezzora, mi dice che il risultato dell’esame istologico intraoperatoria dice “astrocitoma di grado 2/3”. Esulto nel cortile dell’ospedale, mi sembra una cosa ottima.

Ma quando esce dopo ore il neurochirurgo mi toglie ogni motivo di sorridere.

A suo parere è un glioblastoma, il campione prelevato e analizzato era molto esterno, la morfologia e l’estensione danno la quasi certezza che sia proprio glioblastoma, secondo lui primario. Ma comunque, dice, ho tolto tutto.

Mio marito dopo l’intervento si è svegliato bene, era euforico.

Dopo cinque giorni siamo tornati a casa, e ha sopportato bene i cicli di radio e chemio.

Finchè una sera si è sentito male. Una specie di crisi di assenza. Era sabato, siamo corsi al pronto soccorso. TAC immediata, ma non ci dicono nulla. Parcheggiano mio marito nel reparto di chirurgia vascolare, perché in neurochirurgia non c’è posto.

La mattina dopo arriva il primario, Salva ed io siamo in piedi in corridoio, lui sta meglio. Ci dice “è una recidiva precoce, non me l’aspettavo, riopereremo”. Gli chiedo se non possa essere un residuo di tumore non asportato durante l’intervento (l’ho letto nella cartella clinica, lui non ne aveva parlato) e lui nega recisamente e seccamente.

E se ne va.

Mio marito scoppia a piangere per la prima volta da quando lo conosco, singhiozza disperatamente e io mi sento impietrita. Non riesco a piangere, sono in una bolla.

Parlo con il neuroradiologo, l’unica persona più umana di cui mi fidi ormai in quell’ospedale. Mi dice, scappate di qui, l’intervento non è stato radicale.

Scappiamo. Scappiamo prima a Bologna, poi al Besta a Milano.

Lì troviamo finalmente chiarezza e umanità.

Non si trattava di recidiva, ma di residuo e, per il momento, “fermo”.

Prescrivono una risonanza al mese, pronti ad intervenire al primo segnale di cambiamento.

E, il segnale, arriva. È maggio 2012, Salva viene operato da una neurochirurga giovane e sorridente, la dottoressa Cecilia Casali, che diventerà il nostro principale sostegno, medico e umano.

10 ore di intervento, inserimento di gliadel. Ci informa che non ha potuto togliere tutto, ma che il residuo si cercherà di eliminarlo con il cyberknife, che verrà fatto in tre sedute pochi mesi dopo.

Inizia la chemio di secondo livello con fotemustina, perché il glioblastoma di Salva è metilato ma non risponde più al Temodal.

Imparo a fare le medicazioni del pic, andiamo su e giù da Milano, ma Salva sta bene, lotta, lavora, è propositivo, organizza anche qualche viaggio. Andiamo a Venezia, andiamo ad Amsterdam. Ma su di noi incombe l’incubo più nero.

Ogni giorno è un giorno nuovo, e non si sa come sarà.

Ogni giorno mi sveglio con la paura.

So che Salva ha l’inferno dentro, ma continua a lavorare.

I suoi problemi di vista dopo i due interventi si sono aggravati, quindi non guida più. Viaggia spesso per lavoro e prende il treno.

Ogni volta che lo accompagno in stazione e lo vedo camminare verso i binari con il suo passo sempre un po’ più incerto mi si annoda lo stomaco.

Ma quando resta a casa è un leone in gabbia.

Ad inizio 2013 la situazione peggiora. Sempre più frequenti i capogiri, la stanchezza e nuovi peggioramenti dell’umore. Subentra il diabete, per le alte dosi di cortisone.

A marzo la risonanza segnala ripresa di malattia, che è sconfinata anche nella parte temporale destra.

Terzo intervento, 8 aprile 2013.

La dottoressa Casali aveva avvertito che avrebbe potuto verificarsi anche un problema di deambulazione. Utilizzano il 5ALA, una sostanza che, assunta poco prima di entrare in sala operatoria, ha la funzione di “illuminare” le cellule malate, facilitando il chirurgo nella loro rimozione.

Dopo 12 ore di intervento, Salva viene portato in camera, riesce ad evitare la rianimazione.

Il giorno dopo, cammina.

Siamo tutti strabiliati.

Ma il sollievo dura poco.

Subentrano sintomi preoccupanti, disorientamento, mal di testa.

Vengono fatte tutte le analisi possibili, ma non segnalano infezioni in corso, sospettate invece dalla dottoressa Casali.

Dopo più di venti giorni di ricovero torniamo a Genova, ma in pochi giorni la situazione precipita e rende necessario un nuovo ricovero a Milano, che si protrarrà per oltre un mese e mezzo, durante il quale viene inserito uno shunt intraperitoneale perché un ventricolo non funziona più, e i drenaggi praticati non hanno sortito effetto.

Salva ha anche un pneumotorace, che viene risolto in una settimana di rianimazione.

Alla fine di tutto questo, Salva perde l’uso delle gambe e, ormai in sedia a rotelle, viene accettato in un istituto di riabilitazione di Genova, dove arriva scoraggiato e arrabbiato con me, perché non lo avevo fatto tornare a casa. È inoltre inappetente, non si alimenta, nonostante io cerchi di procurargli i cibi che “prima” amava di più.

Dopo pochi giorni arrivo per dargli la colazione (o, almeno, provarci) e lo trovo a letto semincosciente, tutto imbrattato di feci ed urine e soprattutto con il cranio gonfio in modo abnorme.

Chiamo al cellulare la dottoressa Casali, che in un lampo mi organizza il trasporto urgente in ambulanza scortati dalla polizia per evitare il traffico a Milano.

Nuovo idrocefalo, perdita copiosa di liquor.

Altro ricovero, ma la situazione continua a precipitare, insieme alle nostre speranze.

Salva comincia ad avere allucinazioni, l’inappetenza si aggrava, diventa sempre più intrattabile.

Alla fine di giugno ottiene comunque di tornare a casa.

Mi organizzo per trovare un aiuto (purtroppo il lavoro mi costringe a stare fuori casa durante il giorno) e un fisioterapista a domicilio.

Piano piano sembra riprendersi, al punto che insiste per organizzare una settimana in montagna ad agosto, con me ed i miei cognati.

Trascorriamo quindi qualche giorno in Trentino, ma presto lui perde interesse e vuole anticipare il rientro.

La situazione torna a peggiorare, faccio fatica a farlo mangiare, ad assumere farmaci, a pulirlo.

Ben presto diventa incontinente e questa è l’ennesima umiliazione che deve subire.

A fine ottobre la risonanza di controllo rivela il peggio. 

Forte infiltrazione del tumore nel corpo calloso, tendenza all’ernia uncale.

L’ultima battaglia è persa, nulla si può più fare.

Per la prima volta gli mento, gli dico che l’apparente peggioramento è dovuto alla necrosi.

Forse mi crede, forse fa finta.

Nell’ultimo periodo perdo ogni giorno un pezzetto di lui, che si chiude sempre più nel silenzio, forse si sta distaccando dal mondo, non so.

Il 17 dicembre vengo avvertita da casa che non riesce a deglutire e che gli sta salendo la febbre.

Chiamo la dottoressa Casali, corro a casa, la febbre sale fino a 41.

Non scende neanche con il Rocefin e tachipirina, ci procuriamo una bombola ad ossigeno, nel tentativo di aiutarlo a respirare, ma non riesco a mantenere la promessa che gli avevo fatto, di rimanere sempre a casa.

Alle tre di notte chiamo l’ambulanza, la bombola di ossigeno non sembra sufficiente, ho il terrore che muoia soffocato.

Muore la mattina dopo, in un letto all’ospedale, in silenzio.

Questa è la sua storia.

Sono passati sei anni, ma la rabbia e il dolore non passano anche se la vita è ripresa.

La vita va avanti, come lui avrebbe voluto.

Cerco di fare tesoro del suo grande insegnamento di forza e coraggio, ma in realtà è rimasta la paura. È rimasto l’orrore, rimarrà per sempre il rimpianto.